La poesia c'è e non se ne va da nessuna parte

La più recente polemica letteraria estiva ha riguardato la situazione editoriali della poesia, e implicitamente, il rapporto che lega questo genere al pubblico. Senza che io stia a ripercorrere ogni tappa di questa discussione mi sembrerebbe sensato soffermarmi su alcuni punti:

1. nel 2015 parlare di ricostituire un pubblico competente suona francamente pretenzioso. La «Dittatura della abitudini» di Charles Duhigg suggerirebbe che alcuni comportamenti, e soprattutto certe propensioni al consumo, siano definite in età scolare perché è questo il periodo della vita di un individuo segnato dal numero maggiore di cambiamenti. Questo, la nascita di un figlio e una patologia grave. Eppure non sono sicuro che ripartire dalla scuola sia l’unica via praticabile e, inoltre, solleva alcuni problemi etici: promuovere lo studio di certi autori e di tal'altri no presume dei criteri, la domanda alla quale ancora non ci è stato possibile dare una risposta definitiva è quali questi criteri siano. Un altro rischio sarebbe quello di considerare la poesia alla stregua di qualsiasi altro oggetto di consumo – un oggetto di consumo si deteriora con l’utilizzo, la poesia non è deteriorabile. Concludendo, non è ancora evidente quali soggetti economici ne trarrebbero giovamento, ed è probabile che questi non siano le piccole case editrici.

2. Le dinamiche sociali del mondo della letteratura sono molto simili a quelle di una chiesa: c'è una liturgia, un credo, anche un culto dei santi. Critiche che riguardino il dogma sono mal digerite. La domanda cruciale, ovvero che cosa possa abbattere il confine che separa i secoli - consacrando un autore alla storia - di solito riceve una risposta assertoria, ai posteri l'ardua sentenza che potrebbe essere sostituita con la seguente espressione: è così perché è così. Eppure non c’è nulla di male nel domandarsi, con umiltà, quali siano i tratti che distinguono i versi che appartengono al nostro patrimonio comune, distinguendosi per la loro universalità. Forse degli elementi che li accomunano esistono. Certo, una ricerca di questo tipo dovrebbe partire da alcune premesse, per esempio che il concetto di patrimonio comune ne presuppone un altro, ovvero quello di tradizione inventata. "Per tradizione inventata si intende un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato" [1].

3. Casadei, nel suo intervento sul «Corriere della Sera» "La poesia è viva, ma ora bisogna ricostruire un pubblico competente" (che potete leggere qui) scrive di pubblico competente ma quali siano nello specifico queste competenze non ci è dato saperlo. Se, forse, ci è possibile dedurle ciò che mi preoccupa è il discorso politico sotteso, ovvero che si debba imporre dei modelli interpretativi: fare sì che gli studenti guardino il mondo indossando le nostre stesse lenti.

Quale dovrebbe essere un pubblico competente ancora non lo sappiamo. Quale equipaggiamento debba ricevere nemmeno. Ecco, cari, amici, dovremmo favorire le riflessioni che riguardino il bello ma non obbligare gli altri ad accettare i nostri canoni estetici soprattutto se sono fragili. Forse, e nemmeno ce ne accorgiamo, le motivazioni che ci muovono potrebbero risiedere nel pallido tentativo di consacrare alcuni nomi alla storia e decidendo l'oblio di altri, definendo delle gerarchie dove noi stessi, come autori, possiamo essere collocati - c'è un evidente problema di conflitto di interessi.

4. Ritengo che la contiguità biologica tra autori, quali propaggini ultime di una sorta di organismo, un albero, abbia visto ridimensionata la sua importanza nell'epoca in cui stiamo vivendo - affinità biologiche, questo sì ma non dipendenze reciproche ed esplicite o, anche peggio, implicite.

Noi non possiamo decidere quanto sia giusto che i più giovani leggano o, se decidiamo di operare delle scelte in tal senso, dobbiamo anche essere disposti a considerarne i limiti e di assumercene ogni responsabilità. Non voglio ridurre l'importanza che ha l’insegnamento - abbiamo oggi più che mai bisogno di buoni insegnanti - vorrei però che ci chiedessimo quali siano le urgenze che ci stanno muovendo e le conseguenze che queste potrebbero avere, non facciamo sì che gli studi umanistici si tramutino in una dottrina favorendo quel processo secondo il quale, come evidenziava Illich, "La scuola è l'agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com'è". Dobbiamo considerare la scuola il luogo deputato alla crescita spirituale degli individui e non quello dove essi subiscono un processo di omologazione. Rimpiango la Scuola catechetica di Alessandria dove, per lo meno, erano insegnate le sette arti liberali: retorica, logica, grammatica, matematica, astronomia, geometria, musica. La rimpiango soprattutto in un momento come quello attuale, dove l'unica lingua capace di attrarre a sé, per motivi di prestigio, l'interesse di persone provenienti da generazioni tra loro distanti e di diversa estrazione sociale, è una lingua cucula: l'inglese.

5. Quello allora che vi chiedo è uno sforzo teoretico che, oggi, rimane quasi del tutto inespresso benché io creda si possa rintracciare nel lavoro di alcuni giovani accademici. In un momento storico come questo, di palingenesi, un momento in cui le istituzioni culturali del mondo moderno affannano e un nuovo mondo sta prendendo forma, non possiamo ignorare la necessità di rinnovare i nostri strumenti di indagine; esisteranno degli autori e delle poesie capaci di rappresentare non solo i luoghi dai quali proveniamo ma anche quelli in cui siamo diretti, che abbiano, latenti, le forze capaci di esprimere anche i secondi.

Il mondo è sempre più piccolo, i mezzi di trasporto e comunicazione sempre più rapidi, la multiculturalità e le sfide che ne dipendono, un dato di fatto. Culture residuali da un lato e della società mobile e secolarizzata si fronteggiano e questo può farci sentire smarriti. Eppure la poesia, di epoca classica o coeva, è il frutto di esseri umani che, sebbene distanziati dalle epoche, hanno conosciuto le stesse angustie. Io penso che esistano dei messaggi, delle formule, di attraversare intatte le epoche, di esprime la condizione dell’inattualità.

6. Sempre nell'articolo di Casadei si afferma la grandezza di testi come "primavera hitleriana". Non ho nulla contro quest'affermazione per quanto io reputi difficile che sia di facile dimostrazione. Il nostro compito sarebbe quello di leggere il libro del mondo, dedicando le nostre energie a ciò che si trova al di là dei confini dell'accademia e della repubblica delle lettere, dare una spiegazione di 'grandezza' non è semplice eppure ognuno di noi è cosciente del fatto che esistono testi grandi anche in virtù del fatto che hanno la capacità di raggiungere un pubblico molto differenziato.

Forse sono gli strumenti linguistici le fondamenta sulle quali edificare qualsiasi successivo discorso critico; l'impressione che ho è che per alcuni la poesia sia l’atto di un culto, quello che, secondo Benjamin, non può conoscere abiura: il capitalismo. In questo nuovo millennio, il ruolo sociale del letterato non può corrispondere a quello di una élite capace di imporre dei canoni ma, semmai, di diffondere una cultura degli strumenti, di regole e non norme.

Esclusi alcuni precipui gruppi sociali, certi fatti storici e tradizioni, sono del tutto estranei all'uomo contemporaneo e gli è impossibile interpretarli, sono stati espressi in un codice culturale che lui non conosce. Così, un testo, se posto in relazione a uno specifico contesto storico, acquisisce per l'individuo di quell'epoca un certo significato; eppure esistono poesie che sono capaci, di rigenerarsi e di mantenere inalterato il loro potere espressivo.

Nel nostro paese il 70% delle persone non è capace di comprendere un contratto di lavoro o un programma elettorale, sono gli analfabeti di ritorno, in questo contesto non è ammissibile una posizione che consideri tout court la poesia 'facile' di minor pregio, rispetto a quella che - per altro da me amata - si sviluppa in un ambiente ristretto e di persone dotate di competenze letterarie.

6. Poesia facile non vuole dire molto, sarebbe necessario definire questo facile. Pascoli è facile. Ungaretti è facile. Brodskij è facile. Esenin. Carver. Catalano. Ci riferiamo, con facile, alle scelte lessicali di un autore - al fatto che il suo idioletto si modelli partendo dal lessico di alta frequenza. Facile, per la somiglianza che questa poesia ha con il più logoro discorso politico. Facile perché si contraddistingue per l'iterarsi dei deittici, degli avverbi di tempo e luogo, dei pronomi dimostrativi; per il ricorrere all'avvicinamento attanziale, all'aneddoto, all'ironia; per l'utilizzo dei luoghi comuni, del paradosso, delle giustapposizioni. O ancora, facile perché, a nostro avviso, in essa si produce una già additata cesura: si rinunci a specifici riferimenti, che sia assente un tributo nei confronti dei padri, delle madri, delle eco stilistiche, quei padri e quelle madri già oggetto di venerazione delle élite cattedratiche del passato e del presente.

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[1] Hobsbawm E. J. e Ranger T. (a cura di), 1983, «L'invenzione della tradizione», Giulio Einaudi Editore, 1987 e 1994, Torino.