Padova, nemorie di luce - un monumento rigettato

Hanno danneggiato il monumento Memoria e Luce dedicato ai fatti dell'undici settembre. Si potrebbe pensare che questo sia un sintomo rivelatore, sintomo rivelatore del fatto che l'opera di Daniel Libeskind sia stata, in un certo senso, rigettata dalla nostra città, da Padova. Non certo per il significato che essa veicola, per quella memoria che avrebbe il fine di vivifica, quanto per il motivo che non susciti, nel cuore di chi le passi affianco, una genuina forma di rispetto, è insignificante per il nostro spirito, è un'opera weberianamente parlando, di natura razionale - non emotiva. Quelle superfici azzurre non fanno parte della nostra identità né si integrano con le linee architettonica del contesto in cui è stata collocata, non parla la lingua di questa città, la lingua che ci è stata impartita sin dall'infanzia, quella, per essere chiari, che accomuna ognuno dei nostri placidi centri storici, dove Medioevo, Rinascimento e Futurismo sono capaci di amalgamarsi – il problema, se non si fosse capito, non è di contenuto ma di forma. Non concordo con l'analisi di Kyle Scott, Console Generale degli U.S.A. in Italia, anche se la ritengo estremamente interessante, ovvero: che è inevitabile che un monumento, o un'opera di arte pubblica, sia prima o poi soggetta ad atti di vandalismo, nel momento in cui "entra a far parte dell'arredo urbano della città" perché questo ragionamento metterebbe sullo stesso piano opere tra loro estremamente differenti.

Le statue di Prato della Valle (opere laiche) non sono ricoperte da cima a fondo da tag, nemmeno il Santo (opera sacra). Forse parliamo di un monumento che non è stato capace di farsi accettare per il ruolo che il governo cittadino gli aveva destinato – sorge, questo monumento, a un centinaio di metri dalla Cappella degli Scrovegni, a duecento dalla Chiesa degli Eremitani a cinquanta dai resti dell'arena romana. E non sarebbero bastati dieci eventi all'anno, nella superficie che raccoglie nel suo abbraccio di vetro e acciaio, per mutare i sentimenti che la cittadinanza prova nei suoi confronti – anzi, sono proprio gli atti vandalici di cui è stata soggetto a renderlo, almeno agli occhi di qualche ragazzino, un luogo vero e proprio. Fargli compiere un passaggio di stato tra nonluogo e luogo. "Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, si definirà un nonluogo [...] la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici e [...], contrariamente alla modernita baudeleriana, non integra in sé i luoghi antichi: questi, repertoriati, classificati e promossi luoghi della memoria, vi occupano un posto circoscritto e specifico". come giustamente dice Marc Augé in «Nonluoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità», potremmo pensare che l'opera di Daniel Libeskind è qualcosa di propriamente estraneo alla funzione che, in realtà, le si vorrebbe attribuire; il Comune di Padova spenderà decine di migliaia di euro per riparare ai danni che questa ha subito e provvederà a disporre una sorveglianza stringente: forse telecamere, forse, per qualche tempo, guardie – ma non risolverà in questo modo un problema macroscopico, ovvero, come ci ricorda Malcom Miles in «Art space and the city», che il fallimento di un'opera di arte pubblica dipende principalmente da tre fattori,
1) il luogo in cui essa viene realizzata,
2) una cultura dell'arte che è pressoché sconosciuta all'infuori delle Accademie,
3) il fatto che questo genere di opere parla troppo spesso il linguaggio architettonico della cultura dominante, (o per meglio dire di quella cultura che domina nel mondo dell'Arte) e che, molto spesso, è incomprensibile e alieno ai non addetti a i lavori.

Vi è poi un altro problema, me ne sono accorto uno degli ultimi giorni che ho trascorso a Padova prima di tornare in Cina - «Memoria e Luce» è un monumento incapace di invecchiare. Il suo aspetto non viene minimamente alterato dai fenomeni atmosferici o dall'inesorabile incedere delle stagione, immutabile - sembra quasi schernirci - l'arena romana, poco distante, ogni volta che la si osserva con attenzione appare differente - sono altre le piante che sono cresciute su quei ruderi, altre le pietre che hanno ceduto al peso stesso della storia - la parete esterna a nord della Cappella degli Scrovegni, nelle stagioni più umide, altera leggermente il suo colore - sembra quasi che anche lei lo senta, il freddo dell'autunno, il gelo dell'inverno - i basamenti delle statue di Prato della Valle, in primavera, possono ricoprirsi di una sottile lanugine - non so se sia un'alga o se sia il muschio - tutte queste mutazioni quasi impercettibili, in un certo senso, ci rassicurano - riconducono il monumento (o l'opera di arte pubblica) alla nostra dimensione, alla dimensione dei viventi, ed è per questo motivo, io credo, che troviamo la forza di empatizzare con loro, perché sono il tentativo, imperfetto - ti lambire l'immortalità nel mondo del tangibile. E sono proprio questi modesti sintomi di fallimento, questo dover riassumere, in un'ultima istanza, tutto quanto al mondo delle cose - che non ci fa provare, nei loro confronti, la repulsione dell'estraneità: non ci sono aliene. Riflessioni di questo genere, io credo, condussero P. B. Shelley a scrivere i versi seguenti: Ozymandias
I met a traveller from an antique land
Who said: "Two vast and trunkless legs of stone
Stand in the desert. Near them on the sand,
Half sunk, a shattered visage lies, whose frown
And wrinkled lip and sneer of cold command
Tell that its sculptor well those passions read
Which yet survive, stamped on these lifeless things,
The hand that mocked them and the heart that fed.
And on the pedestal these words appear:
`My name is Ozymandias, King of Kings:
Look on my works, ye mighty, and despair!'
Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away".
Traduzione:
Incontrai un viaggiatore di ritorno da una terra antica
che disse: “Due immense gambe di pietra, senza tronco,
si ergono nel deserto. Vicino - sulla sabbia,
mezzo affondato, un volto infranto giace, il cui cipiglio
e il labbro corrucciato, e il sogghigno di gelido comando,
dicono che il suo scultore lesse accuratamente le passioni
che ora, impresse su quelle cose senza vita, sopravvivono
alla mano stessa che le sbeffeggiò, al cuore che le alimentava;
e sul piedistallo, queste parole appaiono:
‘Il mio nome è Ozymandias, Re dei Re,
guardate le mie opere, o voi potenti, e disperatevi!’
Nient'altro rimane. Attorno al disfacimento
di quel colossale relitto, sconfinate e nude
le sabbie, uniformi e solitarie, si stendono lontano”.